Perché “Il Talebano”? Cronaca di uno scandalo annunciato tra progressisti indignati e tribù digitalidi un irriducibile nostalgico del pensiero indipendenteSì, avete letto bene. Il Talebano. Non è uno scherzo. Non è un nome in codice per una setta underground. Non è nemmeno un gruppo Telegram dove si impara a fare il pane con la farina di farro e a costruire granai comunitari. È il nome di un sito, di una comunità di pensiero, di una provocazione culturale che da anni agita le acque torbide della corretta opinione pubblica. E, soprattutto, è uno schiaffo ben assestato a quella categoria di individui noti come i reazionari del progresso.Sì, proprio loro. Quelli con l’hashtag giusto al momento giusto, quelli che parlano di inclusione mentre ti cancellano perché non hai fatto l’inchino al dogma del giorno. Quelli che ogni mattina si svegliano e si chiedono: “Chi dobbiamo indignarci di nuovo oggi?”.Bene. Oggi è il turno di Il Talebano. E per loro è un colpo durissimo. Perché, vedete, chiamarsi così significa rivoltare il tavolo del politically correct, significa prendere il simbolo più detestato dall’Occidente liberal e farne — orrore! — un punto di partenza per riflettere sul senso profondo dell’identità, della resistenza, della cultura dei popoli.“Ma come?!
I Talebani?!”Già. Proprio loro. E prima che qualche benpensante finisca a piangere tra le braccia dell’ultima serie Netflix sul coraggio delle attiviste woke, occorre chiarire: non è un’adesione alle barbarie, ma una provocazione culturale che parte da un’osservazione semplice: chi ha saputo resistere a due superpotenze mondiali nel nome della propria religione, dei propri costumi e del proprio modo di vivere?Non certo gli editorialisti progressisti che oscillano tra una citazione di Foucault e un filtro Instagram. No. I Talebani – con tutte le loro contraddizioni – hanno incarnato una forma estrema e coerente di resistenza culturale. E questo, che piaccia o no, in un mondo globalizzato dove ogni popolo è costretto a bere Coca-Cola e pensare secondo gli algoritmi di Palo Alto, è una rarità antropologica.Il libro che ha ispirato tutto? Il titolo, per chi se lo fosse perso, è anche un omaggio. Un omaggio a Massimo Fini, uno che il mainstream non ha mai amato troppo. Uno che ha scritto “Il Vizio Oscuro dell’Occidente”, ma anche quel piccolo gioiello profetico: OMAR. Il capo dei Talebani. Un romanzo controcorrente, che provava a entrare nella mente del nemico per capire, anziché condannare in automatico. Ma figuriamoci se il cittadino del mondo con Master a Parigi e cappuccino con latte di mandorla può accettare tutto ciò. Per lui il Talebano è il Male Assoluto™, quello che gli fa sentire buono senza doversi fare troppe domande su Amazon, sull’Afghanistan sventrato per vent’anni, o sul burqa democratico delle multinazionali. Difendere la tribù è più rivoluzionario del gender washing. Il Talebano ha scelto il nome proprio perché la parola fa paura. Non tanto per ciò che rappresenta davvero, ma per ciò che svela: un mondo che non vuole omologarsi, che non vuole vendere la propria identità in cambio di una tessera punti della civiltà liberale. Nel deserto afghano, le tribù combattono per tramandare tradizioni millenarie. Nelle città europee, le tribù digitali combattono per essere sempre più simili a quello che TikTok detta. Indovinate voi quale civiltà crollerà prima.
E quindi, perché “Il Talebano”?Perché nessun altro nome avrebbe fatto arrabbiare così tanto gli adoratori del progresso coatto (da Ultimi Rizzo e Floris a Di Martedì. Noi siamo una dichiarazione di guerra al pensiero unico, al conformismo col badge arcobaleno. E perché — diciamolo — in un mondo dove tutti vogliono sembrare buoni, serviva qualcuno che avesse il coraggio di sembrare cattivo pur di dire qualcosa di vero.