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11 Jun
11Jun

In un’epoca in cui l’informazione si consuma in tempo reale e il pensiero si misura in caratteri, esiste una corrente culturale che va in controtendenza. Non urla, non rincorre la novità, non cerca like: è la cultura di destra, intesa non come semplice posizione politica, ma come visione del mondo capace di guardare oltre l’apparenza e cogliere le radici profonde della crisi del nostro tempo. È una cultura che, da sempre, diffida dei facili entusiasmi del progresso a ogni costo. Non perché sia nostalgica, ma perché conosce il prezzo della disumanizzazione. Antimoderna? Sì, ma non passatista. La destra autentica non sogna un ritorno al passato, ma difende ciò che di umano rischia di andare perduto: il senso del limite, il rispetto dell’ordine naturale, l’appartenenza a una storia, a una terra, a una civiltà.Da decenni – con un certo isolamento intellettuale – questa visione ha messo in guardia contro i pericoli dell’omologazione culturale, della dissoluzione dell’identità, del dominio della tecnica sulla politica. E oggi, di fronte al delirio del “postumano” – che promette l’uomo potenziato, l’intelligenza artificiale sovrana, la scomparsa del corpo e del confine – proprio questa cultura si mostra tra le poche ad avere gli strumenti per una vera resistenza antropologica. La destra pensa l’uomo non come un pezzo da aggiornare, ma come essere incarnato, finito, spirituale. In un mondo che confonde la libertà con l’abolizione dei limiti, ricorda che la dignità umana nasce anche dall’imperfezione, dall’eredità, dal radicamento.Certo, non si tratta della destra dei talk show o delle ricette prêt-à-porter per l’emergenza del giorno. Ma di una destra profonda, profetica, non sempre comoda, che non si accontenta di gestire l’esistente, ma si interroga sulle sue fondamenta. Una cultura che parla di ordine, comunità, identità, sacro, parole oggi spesso fraintese o derise, ma forse proprio per questo urgenti. Per questa visione, il futuro non è una corsa cieca verso il nuovo, ma un ritorno consapevole a ciò che conta. È l’idea che senza radici non ci sia libertà, senza forma non ci sia bellezza, senza verità non ci sia politica. Una voce scomoda, sì. Ma, in tempi di pensiero debole, forse proprio per questo necessaria.

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