Cookie PolicyPrivacy Policy
11 Jun
11Jun

C’è un paradosso che scorre silenziosamente sotto i nostri occhi: viviamo in un mondo che celebra la diversità solo a parole, ma che nei fatti impone un modello unico – economico, linguistico, culturale, perfino antropologico.Il nome di questo modello? Globalizzazione. Per anni è stata venduta come una promessa di progresso, apertura, connessione. Ma oggi iniziamo a pagarne il prezzo. Il risultato? Un mondo dove tutto si assomiglia, e in cui le identità reali – dei popoli, delle culture, delle economie locali – vengono sistematicamente cancellate in nome dell’efficienza e del profitto. In questa logica, l’uomo viene ridotto a consumatore, la lingua a strumento di marketing, la terra a risorsa da sfruttare, le tradizioni a folclore da esibire per i turisti. Le piccole imprese muoiono, le campagne si spopolano, i giovani emigrano, e l’intera società si uniforma a un pensiero unico che non tollera alternative.Non è un caso che si cerchi di far passare chi difende l’autosufficienza economica, la sovranità alimentare o l’identità culturale per “reazionario”. È il modo più semplice per zittire ogni resistenza a un modello che trasforma il mondo in un enorme centro commerciale globale, con le stesse insegne, gli stessi gusti e – soprattutto – gli stessi padroni. Ma esiste un’altra via. Ed è quella che parte dalla difesa della terra e delle comunità, dal recupero di filiere locali, dall’educazione al radicamento, alla responsabilità, alla custodia. È il sovranismo sano, quello che non è chiusura, ma alternativa all’imperialismo economico delle grandi lobby internazionali. Difendere le differenze non significa alzare muri, ma valorizzare ciò che rende unici i popoli e le culture. Vuol dire riconoscere che un villaggio africano ha diritto alla sua agricoltura come un borgo italiano al suo dialetto, che non tutto dev’essere globalizzato, informatizzato, standardizzato. Il mondo che verrà non sarà migliore solo perché più connesso. Sarà migliore se ogni popolo potrà restare se stesso. È ora di smettere di credere che esista un solo modo giusto di vivere, produrre, pensare. È tempo di resistere all’omologazione e restituire dignità alla pluralità dei mondi.

Commenti
* L'indirizzo e-mail non verrà pubblicato sul sito Web.