Il Libano sta attraversando un altro periodo segnato dall’assenza di un confronto politico reale sui problemi del Paese. Piuttosto che affrontare le questioni urgenti, il dibattito pubblico ha assunto i contorni di un “teatro dell’assurdo”, che appare come un insulto ai cittadini costretti a vivere una crisi che è ormai parte della loro quotidianità.La storiaPer comprendere occorre ripercorrere brevemente il contesto: Hezbollah, il “Partito di Dio”, nacque in Libano negli anni Ottanta grazie ai consistenti investimenti dell’Iran, con l’obiettivo di prendere il controllo della linea di resistenza contro Israele, allora occupante del sud del Paese, sottraendola ai gruppi della sinistra libanese. Quella guerra di liberazione divenne presto la ragion d’essere del movimento, che si definì “partito della resistenza”.Nel 2000, il ritiro israeliano dal Libano meridionale non portò però al disarmo di Hezbollah; da quel momento il Paese perse una parte della propria sovranità: il gruppo armato assunse il controllo della strategia nazionale di difesa, sostituendosi allo Stato, mantenne alleanze con governi stranieri e dichiarò nuove guerre.L’ultimo capitolo di questa lunga scia di conflitti si è aperto l’8 ottobre 2023, quando Hezbollah ha lanciato una “guerra a bassa intensità” contro il nord di Israele. Una mossa che non ha portato benefici concreti ai palestinesi, ma ha avuto lo scopo di consolidare la leadership del movimento nel fronte antisraeliano e mettere sotto pressione i Paesi del Golfo, storici rivali di Teheran. Tuttavia, operazioni di intelligence israeliane sono riuscite a penetrare nelle comunicazioni interne di Hezbollah, infliggendo danni strategici significativi.Le conseguenzeI combattimenti che ne sono seguiti hanno devastato il Libano meridionale e la periferia sud di Beirut, roccaforti del movimento sciita. Le conseguenze, però, sono ricadute sull’intero Paese: oltre un milione di persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case, in un contesto già segnato da una crisi economica senza precedenti. La valuta libanese, rimasta stabile per trent’anni a 1.500 lire per dollaro, dal 2020 ha subito un crollo vertiginoso fino a sfiorare quota 100.000.Il governo, vicino a Hezbollah, ha rifiutato di negoziare con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, dichiarando il default e scegliendo lo scontro con le istituzioni finanziarie internazionali. Secondo alcuni economisti, la trattativa, per quanto complessa, rappresentava una possibilità di sopravvivenza per l’economia libanese. Una prospettiva che non rientrava nei piani di chi ha continuato a privilegiare la strategia militare finanziata da Teheran.La guerra del 2024 ha aggravato una situazione già critica in Libano, dove anche i detrattori di Hezbollah portano pesanti responsabilità per il disastro complessivo. Alla fine dell’anno, tutte le parti, compreso Hezbollah, hanno accettato un cessate il fuoco che prevede due punti fondamentali: il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano ed il disarmo della milizia sciita, come stabilito dalle risoluzioni ONU 1559 e 1701.Israele ha accettato il ritiro ma lo ha attuato solo in parte, mantenendo ancora una presenza in cinque aree considerate “avanzate”; parallelamente, l’esercito libanese ha avviato il processo di disarmo di Hezbollah, senza però portarlo a termine. I danni inflitti da Israele agli arsenali, ai vertici ed alla catena di comando dell’organizzazione sono stati ingenti.Il disarmoPer Beirut, la questione non è soltanto di interesse israeliano: nessuno Stato può tollerare la presenza, sul proprio territorio, di un esercito armato che risponde ad una potenza straniera. Il governo libanese punta a ripristinare la piena sovranità del Paese e ad agosto ha incaricato le forze armate di elaborare un piano operativo per completare il disarmo di Hezbollah.Questa decisione è stata contestata dai ministri di Hezbollah e dai loro alleati sciiti, che non hanno partecipato alla riunione in cui la misura è stata approvata. Il piano dell’esercito è stato presentato ufficialmente: i rappresentanti di Hezbollah hanno seguito le discussioni sugli altri punti all’ordine del giorno, ma hanno lasciato la seduta al momento dell’intervento del comandante delle forze armate, il generale Haikal, definendo “illegittima” la decisione del governo. La riunione è stata presieduta dal Capo di Stato Joseph Aoun e si è conclusa con la presentazione, da parte del comandante dell’esercito generale Rodolphe Haykal, del progetto che punta a ristabilire il monopolio statale dell’uso della forza su tutto il territorio nazionale.Nonostante le proteste, i ministri del movimento sciita non si sono dimessi né hanno chiamato i sostenitori a mobilitarsi. Hanno ottenuto però che il comunicato ufficiale del governo definisse il piano “ben accolto” e non “approvato”; il progetto, illustrato in cinque fasi, non prevede ancora date precise, poiché per attuarlo servono risorse considerevoli.La posizione ufficiale di Hezbollah resta ambigua: il movimento chiede che si affronti prima la questione dell’occupazione israeliana delle aree ancora presidiate, in violazione del cessate il fuoco. Il governo condivide questa richiesta e la porta avanti sul piano diplomatico, ma intende comunque proseguire con il disarmo. Resta aperta la domanda sul perché Hezbollah continui a mantenere armamenti che non utilizza neppure per rispondere alle operazioni israeliane quotidiane.Secondo alcuni osservatori, Hezbollah è pienamente consapevole di come i cambiamenti politici avvenuti in Siria impediscano oggi di ottenere nuove forniture di armi dall’Iran, come avveniva ai tempi del governo degli Assad. Questa situazione rende difficile il riarmo del movimento sciita, che si trova dunque a dover decidere quale utilizzo fare delle armi già in suo possesso.Si ipotizza che il gruppo stia cercando di nascondere le conseguenze delle proprie scelte strategiche, mantenendo comunque un margine di pressione da utilizzare come leva nei negoziati internazionali che coinvolgono l’Iran, soprattutto con gli Stati Uniti; resta però aperta la questione se questo rappresenti realmente un problema nazionale per il Libano.Il sistema confessionaleUna possibile alternativa per Hezbollah, sostengono alcuni commentatori, sarebbe quella di trasformarsi in un vero partito politico libanese e contribuire alla ricostruzione del Paese: la rinascita del Libano non può prescindere dalla partecipazione della comunità sciita, che ha conti aperti con il proprio passato sociale ed il proprio futuro politico. Il dibattito dovrebbe concentrarsi sulla ricostruzione di una democrazia capace di superare il sistema confessionale, creando un modello che garantisca sia la tutela delle diverse comunità sia il riconoscimento dei diritti individuali. Il sistema prevede che le principali cariche istituzionali siano assegnate secondo criteri confessionali: la presidenza della Repubblica spetta ad un cristiano maronita, il ruolo di primo ministro ad un musulmano sunnita, mentre la guida del Parlamento è riservata ad un musulmano sciita. A queste disposizioni si aggiunge la prerogativa per i cristiani greco-ortodossi di ricoprire le posizioni di vicepresidente del parlamento e vice primo ministro. Anche la composizione del parlamento segue questa logica, con seggi attribuiti alle diverse comunità religiose.Oggi la sfida principale per il Libano, come per altri Paesi multietnici e multiconfessionali della regione, è quella di garantire pieni diritti di cittadinanza. Il sistema libanese gode già del privilegio di un Parlamento equamente diviso tra cristiani e musulmani, ma resta una sola Camera, eletta su base confessionale con quote fisse per ciascuna comunità. L’istituzione di una seconda Camera, prevista dalla Costituzione e basata su elezioni libere e non confessionali, rappresenterebbe un passo decisivo verso un pluralismo autentico, capace di conciliare la tutela delle comunità con i diritti degli individui.Le sfideUn simile sistema aprirebbe la strada anche ad un decentramento amministrativo, favorendo la convivenza tra gruppi religiosi in territori condivisi. In questo scenario, le comunità non sarebbero più gabbie rigide, ma spazi vitali in cui formare una nuova classe dirigente, sottraendo il potere alle élite familiari che hanno trasformato le comunità in feudi politici.Questo percorso – già previsto dalla Costituzione, ma raramente affrontato nel dibattito pubblico – potrebbe fare del Libano un modello regionale e consentirebbe al Paese di rilanciare il proprio ruolo politico in un’area oggi segnata da instabilità, da Beirut a Baghdad.La sfida è complessa ma affascinante: riportare il confronto politico al centro della scena, trasformando la sconfitta militare in un’opportunità per costruire un nuovo patto sociale e dare voce a sciiti, cristiani, sunniti e drusi in un autentico progetto di ricostruzione nazionale.