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08 Apr
08Apr

I dazi commerciali imposti da Donald Trump rappresentano un fenomeno economico che merita un’analisi approfondita, tanto dal punto di vista macroeconomico quanto microeconomico. Lungi dall’essere una misura da rigettare in toto, i dazi si configurano come uno strumento indispensabile per affrontare gli squilibri generati da una globalizzazione senza regole. Tuttavia, la gestione trumpiana di questa politica rivela una contraddizione profonda: pur adottando un approccio protezionistico, Trump sembra paradossalmente servire gli interessi delle forze progressiste che, attraverso la deregulation globale, hanno impoverito l’Italia e l’Europa.Questo articolo intende sostenere la validità dei dazi come strumento economico, criticando al contempo l’approccio di Trump e individuando le cause strutturali di un sistema commerciale globale squilibrato, imputabili agli Stati Uniti, alla Cina, alla Germania e all’assetto dell’euro. Da un punto di vista macroeconomico, i dazi rispondono a una logica di riequilibrio delle bilance commerciali, un tema centrale nella teoria economica classica e moderna. David Ricardo, nel suo Principles of Political Economy and Taxation (1817), sottolineava come il commercio internazionale potesse generare vantaggi comparati, ma solo in presenza di un equilibrio tra flussi di beni e capitali (Ricardo, 1817, Cap. 7). La globalizzazione degli ultimi decenni ha invece prodotto un’asimmetria: gli Stati Uniti, con un deficit commerciale che nel 2024 ha raggiunto i 900 miliardi di dollari (dati U.S. Census Bureau), hanno assorbito beni dal resto del mondo senza controbilanciarli con esportazioni adeguate. Questo squilibrio, come nota Krugman nel suo International Economics (Krugman et al., 2018), erode la base industriale di un’economia e compromette la crescita di lungo periodo, specialmente quando il consumo interno è finanziato da debito estero. La Cina, d’altro canto, ha sfruttato questa dinamica inondando i mercati globali con prodotti a basso costo, spesso sostenuti da sussidi statali e da una valuta artificialmente svalutata. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale (IMF, 2020), tale strategia ha permesso a Pechino di accumulare surplus commerciali strutturali, con un impatto deflazionistico sulle economie occidentali. In Europa, la Germania ha aggravato questa tendenza: l’introduzione dell’euro, come argomentato da Stiglitz in The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe (2016), ha creato un sistema monetario che favorisce l’export tedesco a scapito dei partner europei, Italia inclusa, bloccando meccanismi di aggiustamento come la svalutazione competitiva (Stiglitz, 2016, Cap. 5).Il risultato? Una crescita stagnante nell’eurozona, con l’Italia che, negli ultimi 25 anni, ha registrato un incremento del PIL reale medio annuo inferiore all’1% (dati Eurostat).In questo contesto, i dazi si configurano come una scelta obbligata per gli Stati Uniti. Non si tratta di eliminarli, ma di comprenderne le origini: un sistema globale che premia i surplus a discapito degli equilibri. Come suggerisce Mundell nella sua teoria delle aree valutarie ottimali, un’economia dominante come quella americana deve utilizzare strumenti protezionistici per contrastare gli effetti distorsivi di politiche commerciali predatorie (Mundell, 1961). Applicati globalmente – dal 20% sull’Europa al 34% sulla Cina, fino al 46% sul Vietnam (dati ufficiali Casa Bianca, 2025) –, i dazi non creano svantaggi competitivi secolari, poiché colpiscono tutti i partner commerciali senza eccezioni. A livello microeconomico, i dazi possono incentivare la rilocalizzazione della produzione e proteggere i settori industriali nazionali, come dimostrato dall’esperienza delle tariffe americane sull’acciaio nel 2002, che secondo uno studio della U.S. International Trade Commission (2003) salvarono temporaneamente migliaia di posti di lavoro nel settore siderurgico (USITC, 2003). Tuttavia, l’approccio di Trump tradisce un paradosso: invece di strutturare i dazi come parte di una strategia coerente di rinascita industriale, li utilizza in modo caotico, alimentando gli interessi delle stesse élite progressiste che hanno sostenuto la globalizzazione selvaggia. Joseph Schumpeter, in Capitalism, Socialism and Democracy (1942), avvertiva che il protezionismo mal gestito rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio, favorendo monopoli interni e inefficienze (Schumpeter, 1942, Cap. 7). I dazi di Trump, con aliquote calcolate in modo opaco – si veda la formula proposta dalla Casa Bianca che dimezza arbitrariamente i deficit bilaterali (Politico, 2025) –, non sembrano mirare a un autentico riequilibrio, ma a una narrazione populista che maschera la continuità con le politiche di deregulation degli ultimi decenni. Questo approccio impoverisce ulteriormente l’Italia e l’Europa, costrette a subire ritorsioni commerciali senza poter competere ad armi pari con i colossi americani, spesso esentati da vincoli regolamentari. Gli Stati Uniti devono dunque invertire la tendenza macroeconomica, non solo imponendo dazi, ma aumentando le esportazioni e riducendo la dipendenza dalle importazioni. Come suggerisce Porter in The Competitive Advantage of Nations (1990), una nazione guadagna competitività solo sviluppando cluster produttivi interni e promuovendo l’export di beni ad alto valore aggiunto (Porter, 1990, Cap. 4). Senza questa correzione, i dazi restano un palliativo.Per l’Italia, la via d’uscita passa da una duplice strategia. Primo, una negoziazione bilaterale con gli Stati Uniti per dimostrare che i nostri prodotti – dal tessile all’agroalimentare – non competono direttamente con quelli americani, ma ne integrano il mercato. Secondo, un’azione interna all’Europa per smantellare le “regole assurde” imposte al nostro tessuto economico: quote latte, normative ambientali punitive e standard burocratici che soffocano le PMI italiane, come denunciato da Confartigianato (2024). Solo così si potrà contrastare la stagnazione economica degli ultimi 25 anni e rilanciare la crescita. I dazi commerciali sono uno strumento necessario e globale, una risposta agli squilibri di una globalizzazione senza regole. Tuttavia, la gestione di Trump ne compromette l’efficacia, rivelando un’insospettabile sintonia con le forze progressiste che hanno indebolito l’Europa. L’Italia e l’Europa devono cogliere l’opportunità di questo momento critico per rinegoziare il proprio ruolo nel sistema globale, esigendo dagli Stati Uniti un riequilibrio reale e riformando internamente un’Unione Europea troppo sbilanciata a favore della Germania.

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