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02 Jul
02Jul

l presente contributo analizza il concetto di civiltà in Oswald Spengler, filosofo della storia tedesco autore del celebre Der Untergang des Abendlandes (Il tramonto dell’Occidente, 1918–1922). In opposizione alla visione lineare e progressiva della storia, Spengler propone una morfologia culturale ciclica, nella quale civiltà e cultura non sono sinonimi, ma momenti successivi di un processo vitale. La civiltà rappresenta, per Spengler, la fase finale, decadente e artificiale di una cultura: la morte della sua anima vivente. L’articolo discute la struttura teorica, i presupposti metafisici e le implicazioni politiche di tale concetto. La riflessione di Oswald Spengler (1880–1936) si inserisce in un momento storico cruciale per l’Europa: la fine della Prima Guerra Mondiale, il crollo degli imperi continentali e la crisi della civiltà borghese. In questo contesto di disgregazione, Il tramonto dell’Occidente si presenta come una diagnosi radicale e profetica del destino dell’Europa moderna, fondata sul rifiuto dell’idea di progresso e sull’affermazione di una visione biologico-organica delle culture. Spengler oppone alla filosofia della storia illuminista e hegeliana una teoria morfologica delle civiltà, fondata sull’analogia con i cicli vitali degli organismi: nascita, sviluppo, decadenza, morte. Il cuore di questa teoria è la distinzione tra Kultur (cultura) e Zivilisation (civiltà), che costituisce uno dei concetti più densi e controversi della sua opera. Per Spengler, ogni grande cultura è un organismo spirituale dotato di un’anima propria, irriducibile a ogni altra. Essa nasce in un momento di slancio creativo, spesso legato a un particolare paesaggio (ad esempio, la cultura egizia e il Nilo, la cultura araba e il deserto, la cultura faustiana e lo spazio infinito). Le culture, dunque, non si evolvono per accumulo, ma per fioriture autonome, ciascuna con il proprio destino (Schicksal). Il passaggio da Kultur a Zivilisation rappresenta, in questa prospettiva, la fase terminale e meccanizzata di una cultura che ha perso la propria forza creativa. Se la cultura è forma viva, la civiltà è forma morta: codificazione, istituzionalizzazione, razionalizzazione. Spengler scrive:“La civiltà è la conclusione: è la cosa rigida, l’ineluttabile, l’artificiale. È ciò che ogni cultura diviene, quando si è esaurita.”
(Der Untergang des Abendlandes, vol. I)
La civiltà è quindi il destino di ogni grande cultura, ma anche la sua negazione interiore. È la maschera mortuaria della cultura, la sopravvivenza puramente materiale di forme che un tempo erano cariche di senso. Spengler identifica nella civiltà alcune caratteristiche ricorrenti che segnano la fine della vitalità culturale:

  • Urbanizzazione smisurata: la metropoli diventa il simbolo della civiltà, in opposizione alla “terra” che aveva generato la cultura. La campagna è luogo della forma organica; la città, luogo della tecnica e del potere senz’anima.
  • Dominio della tecnica e della scienza astratta: nella civiltà si assiste al trionfo del razionalismo, dell’economia monetaria, dell’industrializzazione e della tecnica, a scapito della profondità simbolica e mitica.
  • Espansione imperiale: l’ultima fase della civiltà è segnata dalla politica di potenza, dalla conquista e dall’unificazione coercitiva dei popoli. L’impero è l’ultima forma politica della civiltà (Roma per la cultura antica, l’America per la cultura faustiana).
  • Crollo della religione e del mito: nella civiltà domina la secolarizzazione. Le grandi credenze religiose vengono svuotate, ridotte a formule, superstizioni o strumenti di potere.

In sintesi, la civiltà rappresenta il momento in cui una cultura ha perso il contatto con la propria anima e sopravvive solo nella forma esteriore, come una pianta che ha smesso di fiorire. Secondo Spengler, la cultura occidentale – da lui definita “faustiana” – ha già superato il suo apice vitale e si trova oggi in piena fase di civiltà. L’Occidente è dominato dalla metropoli, dal capitalismo finanziario, dall’ateismo tecnico, dalla democrazia di massa. Tutto questo non è progresso, ma segno di esaurimento. Nel mondo faustiano, il desiderio d’infinito ha generato una tensione smisurata verso la conquista (territoriale, tecnica, scientifica, transumanesimo), ma ha anche condotto alla crisi spirituale. L’uomo moderno, scrive Spengler, “non crede più in nulla, se non nella quantità e nel successo”. La guerra, i conflitti ideologici, il crollo delle istituzioni tradizionali sono segnali del tramonto dell’Occidente, che non può più tornare a essere cultura. Il ciclo è irreversibile. L’unico futuro possibile è quello imperiale, cesaristico: la politica senza anima, la forza senza forma. In un’epoca segnata dalla crisi delle identità, dalla dissoluzione del senso e dalla tecnicizzazione della vita, la distinzione tra cultura e civiltà proposta da Spengler resta uno strumento potente per leggere la nostra decadenza non come un caso, ma come un destino che siamo costretti a subire ed è per questo, consapevoli e coscienti, dobbiamo essere pronti al nuovo ciclo che presto comincerà.

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