Di fronte agli ultimi dati diffusi dall’OCSE e dalla CGIL, la fotografia dell’Italia economica è allarmante: i salari reali sono ancora inferiori del 7,5% rispetto al 2021, con il nostro Paese in testa al triste primato del calo più marcato tra tutte le economie avanzate. Un record di cui nessuno può andare fiero. Anzi, è il segnale di una crisi strutturale che mina alla base il benessere, la fiducia e la stessa tenuta produttiva del Paese. I numeri parlano chiaro. Nonostante alcuni aumenti nominali registrati nell’ultimo anno, la corsa dei prezzi ha divorato tutto. L’inflazione ha bruciato gli adeguamenti contrattuali, e il risultato è una busta paga sempre più leggera, soprattutto per i lavoratori del settore privato. Secondo la CGIL, il 62% dei dipendenti privati guadagna meno di 25.000 euro lordi all’anno. In pratica, due lavoratori su tre vivono con poco più di 1.200 euro netti al mese, in un Paese dove l’affitto di un bilocale nelle città supera ormai i 700 euro. E mentre il costo della vita aumenta, il potere d’acquisto si sgretola. La stessa OCSE rileva che, all’inizio del 2025, un lavoratore su tre era ancora senza un contratto collettivo rinnovato. Questo vuol dire salari fermi, trattative congelate, prospettive incerte. Quando i contratti non si rinnovano, l’economia si blocca: le famiglie rinunciano a consumare, le imprese non vendono, il PIL rallenta. Un circolo vizioso che si autoalimenta: meno salari significa meno spesa, e meno spesa significa meno crescita. In un sistema economico basato sui consumi interni, come quello italiano, ogni euro che manca in busta paga è un euro che non entra nel circuito produttivo.Non si tratta solo di un’emergenza salariale: è una questione sistemica. La stagnazione del reddito da lavoro sta impoverendo l’intero Paese. Le famiglie tagliano sui consumi, i giovani emigrano, la natalità crolla, i servizi sociali si svuotano. E mentre in Europa alcuni Paesi investono per aumentare la produttività e sostenere i redditi, l’Italia resta al palo, bloccata tra austerità e immobilismo contrattuale. La politica, invece di intervenire con strumenti strutturali – come una seria riforma fiscale a favore dei lavoratori dipendenti, incentivi alla contrattazione e investimenti nella produttività – si perde in polemiche ideologiche, mentre il tessuto economico del Paese si disgrega. Non si può continuare a parlare di ripresa senza affrontare il tema centrale: il lavoro va pagato meglio. Non per ideologia, ma per realismo economico. Perché senza salari dignitosi, non esiste crescita sostenibile. Non si crea domanda interna, non si rafforza l’industria, non si costruisce futuro. Il declino salariale italiano non è un effetto collaterale: è la radice del problema. Un Paese che paga poco il proprio lavoro è un Paese che non cresce. Che si svuota. Che si rassegna.Ora serve un cambio di rotta netto. Serve coraggio. Serve una strategia per rimettere al centro il lavoro, la dignità e la redistribuzione della ricchezza. Perché se il reddito cala, cala tutto il resto: la speranza, la stabilità, il futuro.