Le esplosioni di rabbia giovanile in Francia hanno radici ben precise. Il sociologo Sébastian Roché le interpreta come il frutto della percezione diffusa di ingiustizia tra i giovani: casi emblematici come la morte di Zyed Benna e Bouna Traoré nel 2005 hanno acceso tensioni già latenti, mostrando come la violenza percepita da chi rappresenta la legge possa scatenare reazioni estreme. Analoghe dinamiche si erano osservate negli Stati Uniti negli anni ’90, dopo il pestaggio di Rodney King. In Italia, la situazione è diversa ma non meno delicata. La disoccupazione complessiva è scesa ai livelli più bassi dal 2007, intorno al 6%, ma quella giovanile rimane alta, tra il 18 e il 20%. A questa condizione economica si aggiunge il fenomeno dei “neet” (giovani non impegnati in lavoro né in formazione), che amplifica isolamento e frustrazione. La povertà educativa nelle periferie è significativa: in alcune città, quasi un terzo degli adolescenti non è inserito nella scuola secondaria di secondo grado, e l’accesso a opportunità culturali o ricreative resta fortemente limitato. Il disagio non è solo economico. Per i giovani con background migratorio, le sfide si intrecciano con la difficoltà di sentirsi parte di una società in cui usi e costumi sono diversi. Il senso di esclusione – economica e identitaria – può avere effetti profondi sull’autostima e sul benessere psicologico. Da una prospettiva sociologica, il quadro può essere compreso attraverso le teorie dei sistemi sociali di Niklas Luhmann e della coscienza collettiva di Émile Durkheim. Luhmann ci ricorda che l’inclusione nei diversi sistemi sociali – lavoro, educazione, politica, famiglia – determina l’accesso alle risorse e alle opportunità. La mancata inclusione genera esclusione, con effetti potenzialmente destabilizzanti sulla coesione sociale. Durkheim, dal canto suo, evidenzia l’importanza della coscienza collettiva, ossia della condivisione di valori e norme che garantisce coesione e senso di appartenenza. Quando tale coscienza si indebolisce, come avviene oggi a causa della fluidità dei legami sociali descritta da Zygmunt Bauman, cresce il rischio di isolamento e di frammentazione identitaria. Per i giovani italiani, la costruzione dell’identità è oggi più difficile che in passato. Il processo di socializzazione tradizionale, mediato da famiglia, scuola e comunità locali, è indebolito dalla fluidità sociale e dall’influenza dei social media, che amplificano modelli culturali distanti dalla realtà concreta dei ragazzi. Per gli adolescenti con background migratorio, questa difficoltà è aggravata dalla mancanza di punti di riferimento solidi, con conseguenze sulla percezione di sé e sulla possibilità di integrarsi nella società.La lezione per l’Italia è chiara: il disagio giovanile nelle periferie non è solo un problema economico, ma una questione di inclusione sociale, educativa e culturale. Senza interventi mirati – dall’aumento delle opportunità di lavoro stabile alla creazione di spazi di aggregazione reale, dalla promozione della cittadinanza attiva all’investimento in educazione e cultura – il rischio è che la frustrazione accumulata diventi tensione sociale, con effetti di lungo periodo sulla coesione nazionale. L’Italia deve affrontare il disagio giovanile prima che si manifesti in forme esplosive, costruendo opportunità concrete di inclusione e partecipazione. Solo così sarà possibile garantire che i giovani delle periferie non siano cittadini di serie B in una società che proclama, a parole, uguaglianza e inclusività.