In Italia si parla continuamente di fascismo, e quasi mai con cognizione di causa. Che si tratti di una legge, di un simbolo, di una dichiarazione politica, il termine “fascista” torna ciclicamente in circolo, usato come insulto, come feticcio o come etichetta svuotate di significato. Ma il fascismo storico — quello mussoliniano — fu molto più complesso di quanto il dibattito attuale lasci intendere. Non fu semplicemente autoritarismo e nazionalismo, ma un progetto moderno, in certi aspetti rivoluzionario, che tentò di rifondare lo Stato e superare la forma parlamentare liberale. Il fascismo arriva al potere in Italia nel 1922 dentro le regole della monarchia costituzionale e nazionale con una democrazia parlamentare. Ma le istituzioni esistenti non erano affatto viste come legittime dal fascismo: erano strumenti, non modelli da consolidare. Come scrive Renzo De Felice, il fascismo «non è un movimento reazionario, non vuole tornare indietro: è piuttosto un tentativo, sia pure velleitario, di affrontare e risolvere le crisi della società borghese moderna» (Intervista sul fascismo, 1975).Questa modernità del fascismo emerge anche nel suo rapporto con la Monarchia. Mussolini non aveva alcuna fedeltà dinastica: la Monarchia fu tollerata fintantoché servì a garantire la transizione del potere. Il vero obiettivo era un nuovo ordine imperiale, non monarchico e tanto meno nazionalista. Lo Stato nazionale e liberale veniva visto come debole, decadente, incapace di mobilitare il popolo in modo organico. Zeev Sternhell, nel suo fondamentale Né destra né sinistra (1983), sostiene che il fascismo fu il prodotto di una crisi della democrazia e del marxismo, una «sintesi ideologica nuova» che combinava elementi nazionalisti e socialisti, autoritari e modernizzatori:
«Il fascismo è nato dalla volontà di superare il liberalismo e il materialismo borghese, di creare un ordine nuovo, totale, spirituale e comunitario».
Lo Stato fascista non era quindi pensato come un’imitazione del passato, ma come costruzione ex novo, modellata sul mito della totalità politica e dell’uomo nuovo. Un’eredità, questa, più vicina ai giacobini del 1793 che ai legittimisti ottocenteschi. Emilio Gentile, uno dei massimi studiosi del fascismo come religione politica, lo ha definito «una forma moderna di sacralizzazione della politica» (Il culto del littorio, 1993).
«L’autarchia non fu mai un fine del fascismo, ma una risposta necessitata a una crisi geopolitica imposta dall’esterno» (De Felice, Mussolini il duce, 1965).
Uno degli equivoci più diffusi è pensare che il fascismo fosse intrinsecamente anti-democratico. In realtà, esso rigettava la forma parlamentare della democrazia liberale, ma non l’idea di rappresentanza. Al contrario, il progetto fascista includeva una forma alternativa: la democrazia corporativa, basata non su partiti e individui, ma su categorie produttive, sindacati, corporazioni.
«Il fascismo è democrazia organizzata, disciplinata, volontaria» affermava Mussolini nel 1928. Il parlamento borghese era visto come teatro di egoismi individuali
Anche questo progetto, però, rimase in gran parte incompiuto, sia per i limiti concreti del regime sia per l’accelerazione autoritaria imposta da contingenze internazionali. Rileggere il fascismo alla luce delle sue vere ambizioni significa uscire dalla contrapposizione sterile tra apologia e demonizzazione. Significa riconoscere che il fascismo fu un tentativo — moderno — di costruire una nuova forma statuale. Non una restaurazione, ma una rivoluzione conservatrice. Non un’ideologia chiusa, ma un cantiere politico in movimento.
Per capire questo fenomeno, bisogna leggere e studiare: non i tweet o gli slogan, ma gli storici — De Felice, Sternhell, Gentile, Mosse. Solo allora il dibattito italiano potrà elevarsi e smettere di produrre caricature ideologiche che confondono più di quanto chiariscano.
«Il fascismo è stato una delle tante risposte alla crisi della civiltà liberale»
(Zeev Sternhell, Né destra né sinistra, 1983)
Ed è proprio per questo che va compreso prima che giudicato.