In un tempo non lontano, la politica era il terreno del pensiero, dell’elaborazione culturale, del confronto anche aspro ma generativo. Ogni partito custodiva al suo interno un’anima plurale: le correnti. Non erano solo fazioni in lotta per una poltrona, come una lettura semplicistica e superficiale le ha spesso dipinte. Erano officine di idee, di visione, di proposta. Luoghi dove si discuteva, si formavano quadri dirigenti, si elaboravano strategie e si costruiva la direzione del cambiamento sociale.Oggi, invece, assistiamo a una politica svuotata di pensiero e rigenerata soltanto nell’immagine. L’assenza di correnti – o peggio, la loro riduzione a gruppi di potere personale – ha impoverito l’intero sistema politico, rendendolo incapace di proporre percorsi credibili, coerenti e fondati. Non si elabora più, non si progetta più, non si sogna più. E soprattutto, non si forma più nessuno. Nel vuoto lasciato dalle correnti, è subentrata una logica ben più sterile: quella del personalismo mediatico. Oggi a dettare l’agenda dei partiti non sono più le idee, ma le performance televisive. Non conta saper costruire un pensiero complesso, ma saper funzionare in 30 secondi di slogan in uno studio televisivo. Il merito non si misura con il contributo alla crescita collettiva, ma con il numero di like, di comparsate, di interviste. Il sistema di selezione interna è ormai opaco e inefficiente: si avanza non per visione o capacità, ma per fedeltà a chi detiene il potere nella segreteria del partito. Basta piacere alla persona giusta per ottenere una candidatura, un’intervista sul quotidiano, un passaggio in radio. Così si costruiscono carriere basate sul nulla, con politici che, al di là dell’apparenza, non sono nemmeno in grado di organizzare una riunione o gestire un’agenda. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: una classe dirigente confusa, inefficace, autoreferenziale.La crisi delle correnti ha significato anche la fine della formazione interna nei partiti. Un tempo si cresceva politicamente confrontandosi con linee diverse, imparando a sostenere una posizione, a motivare una proposta, a dialogare con il dissenso. Le correnti erano anche scuole, spazi di crescita collettiva. Oggi l’unico criterio è la visibilità. E il partito – da comunità pensante – si è trasformato in un ufficio di casting. L’impoverimento dei partiti ha conseguenze gravissime anche sulla qualità del dibattito pubblico e sulla capacità della politica di rispondere ai bisogni della società. Quando la progettualità scompare, a farne le spese non è solo il partito, ma l’intera collettività. Una politica che vive di slogan non è in grado di affrontare problemi complessi come la denatalità, la crisi industriale, l’impatto dell’intelligenza artificiale, il collasso educativo. Le correnti, per quanto imperfette, rappresentavano un tessuto connettivo tra partito e società: erano il luogo dove si raccoglievano stimoli dal basso, si interpretavano tendenze, si cercava una sintesi. La loro scomparsa ha lasciato il vuoto.Oggi più che mai, recuperare lo spirito delle correnti è una necessità. Non per nostalgia, ma per funzionalità politica. Servono partiti che tornino a essere laboratori di idee, non palcoscenici per aspiranti influencer. Serve una politica che selezioni chi sa pensare, non chi sa apparire. Serve che si torni a valorizzare il merito, la competenza, la coerenza. Non il favore ricevuto da chi siede al vertice.