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28 Sep
28Sep

Silenzioso. Disattivato. In tasca. Tre semplici accorgimenti, che però sembrano rappresentare oggi un’ardua conquista per molti spettatori a teatro. Perché lo smartphone – questo oggetto di cui nessuno riesce più a fare a meno – ha finito per invadere anche gli spazi della musica classica e operistica, disturbando non solo l’ascolto, ma l’intera ritualità dell’esperienza teatrale. Alla Scala, come in altri teatri italiani, è dovuto intervenire il regolamento: “Si raccomanda di spegnere completamente i telefoni cellulari e di evitare l’uso di dispositivi elettronici durante la rappresentazione”. Un’indicazione che ha finito per assumere contorni tragicomici quando, nei mesi scorsi, un telefono è precipitato da un palco colpendo uno spettatore. Nessun danno grave, ma tanto imbarazzo e una denuncia sfiorata. Da qui il divieto, oggi ben visibile all’ingresso del teatro, di appoggiare oggetti (telefoni compresi) alle balaustre.Dalla Royal Ballet & Opera di Londra al Met di New York, passando per Berlino, Monaco e Parigi, i teatri di tutto il mondo si confrontano con la stessa, annosa questione: come educare il pubblico a un uso rispettoso della tecnologia? Un display che si accende in sala è visibile a metri di distanza. Un suono – anche minimo – spezza la concentrazione non solo degli spettatori, ma anche di chi è in scena. Le cronache sono piene di episodi in cui cantanti o direttori si sono fermati, interrompendo lo spettacolo, per protestare contro un telefono che squillava o contro qualcuno che filmava.Qualche stagione fa, alla Scala, durante un concerto di cori e sinfonie verdiane diretto da Riccardo Chailly, un telefonino ha squillato insistentemente proprio nel momento di maggiore emozione, il coro “Patria oppressa” dal Macbeth. Il maestro ha interrotto l’esecuzione e si è rivolto al disturbatore gelandolo: “Risponda pure, noi riprendiamo dopo”. Poi, rivolgendosi al pubblico, ha aggiunto: “Patria oppressa con l’ostinato del telefonino non è possibile”. L’Orchestra della Scala stava registrando un’incisione per la Decca di Londra. Dopo un applauso imbarazzato della sala, l’esecuzione è ripartita da capo.Un episodio analogo ha coinvolto il compianto Ezio Bosso, durante un concerto al Teatro delle Muse di Ancona. Mentre dirigeva musiche di Strauss, Mozart e Beethoven, un cellulare ha squillato. La sua reazione, composta ma netta, ha lasciato un segno: “È come lo squarcio su un Caravaggio, solo che la tela si può riparare, la musica no. È un vaso incrinato, è una emozione interrotta, è una bellezza che si scompone, peggio di una tela sfregiata”. Anche Riccardo Muti – durante il Concerto di Natale 2024 nell’Aula del Senato – si è confrontato con lo stesso problema: infastidito dal reiterato squillo di un telefono, ha esclamato in dialetto napoletano “E stutatelo ’stu telefono”, aggiungendo con ironia di aver controllato la partitura, “perché credevo che qualcosa mi fosse sfuggito”. Con il suo tipico mix di rigore e humour, il maestro ha strappato un sorriso al pubblico, ricordando però che anche nei contesti più solenni serve una reale educazione all’ascolto e al rispetto reciproco.Ecco il punto. Non si tratta di proibizionismo né di moralismo o nostalgia per l’epoca analogica. Si tratta, semplicemente, di rispetto: per chi è in scena, per gli altri spettatori, per l’opera stessa. Il teatro è un’esperienza collettiva, immersiva, che richiede attenzione e presenza. Lo smartphone, strumento oggi indispensabile, deve sapere quando restare in silenzio. C’è chi si fotografa con il sipario alle spalle, chi filma intere arie come fosse a un concerto rock, chi aggiorna le storie Instagram mentre in scena si consuma un dramma. L’effetto è sempre lo stesso: una frattura tra ciò che avviene sul palco e ciò che dovrebbe accadere in sala, ovvero l’ascolto. L’invito, allora, è semplice: godersi lo spettacolo con gli occhi, con le orecchie, con la mente. Le foto, i video, i messaggi possono aspettare. L’opera no: accade una sola volta. E solo se siamo davvero presenti.

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